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Dall'amministrazione socialista all'avvento del fascismo (1920-1926)

Ultima modifica 5 aprile 2019

Introduzione

Gli anni che seguirono la fine del primo conflitto mondiale costituiscono uno dei momenti più importanti nella storia d’Italia. Gli effetti della Grande Guerra infatti non si esaurirono nella tremenda distruzione di vite umane e nello sconvolgimento dei confini fra gli Stati. Essa rappresentò la più grande esperienza di massa mai vissuta fino ad allora ed agì come un potentissimo acceleratore dei fenomeni sociali. Al termine del conflitto il primo problema che si pose con urgenza alle classi dirigenti di tutti i paesi fu il reinserimento dei reduci. Chi aveva rischiato la vita sui campi di battaglia tornava a casa con una nuova coscienza dei propri diritti, con la convinzione di aver maturato un credito nei confronti della società. La guerra aveva dimostrato l’importanza del principio di organizzazione applicato alle masse. Per far valere i propri diritti e per affermare le proprie rivendicazioni sembrava dunque necessario associarsi e organizzarsi in gruppi il più possibile numerosi. Risultò così bruscamente accentuata la tendenza, già in atto, alla massificazione della politica. Partiti e sindacati videro aumentare ovunque il numero dei loro iscritti. Di fronte a questa crescita delle organizzazioni di massa persero importanza le forme tradizionali dell’attività politica nei regimi liberali, mentre acquistarono maggior peso le manifestazioni pubbliche, basate sulla partecipazione diretta dei cittadini. La consapevolezza del sacrificio subita dai popoli giustificava di per sé l’attesa di soluzioni nuove. L’aspirazione ad un nuovo ordine era dunque comune alla maggioranza degli europei. Per un buon numero di lavoratori e di intellettuali l’ordine nuovo era quello che si stava cominciando ad attuare in Russia.
L’economia italiana nel biennio immediatamente successivo al conflitto presentava i tratti tipici della crisi postbellica: sviluppo abnorme di alcuni settori industriali, sconvolgimento dei flussi commerciali, deficit gravissimo del bilancio statale, inflazione galoppante. Tutti i settori della società erano in fermento. La classe operaia, tornata alla libertà sindacale e infiammata dal mito della rivoluzione russa, non solo chiedeva miglioramenti economici, ma reclamava maggior potere in fabbrica e manifestava tendenze rivoluzionarie. I ceti medi, coinvolti nell’esperienza della guerra e colpiti dalle sue conseguenze economiche, tendevano ad organizzarsi per difendere i loro interessi e gli ideali patriottici. Di fronte a questi problemi la classe dirigente liberale si trovò sempre più contestata e isolata e finì col perdere l’egemonia. Risultarono invece favorite quelle forze socialiste e cattoliche che non erano compromesse con le responsabilità della guerra e che, inquadrando larghe masse, potevano meglio interpretare le nuove dimensioni assunte dalla lotta politica. Furono i cattolici a portare il primo e più importante fattore di novità dando vita, nel ’19, al Partito popolare italiano (Ppi). Il nuovo partito, che ebbe il suo primo segretario in don Luigi Sturzo, si presentava con un programma di impostazione democratica e si dichiarava laico; in realtà il Ppi era strettamente legato alle strutture organizzative del mondo cattolico. L’altra grande novità nel panorama politico italiano fu la crescita impetuosa del Partito socialista. Importante era nel partito la prevalenza della corrente di sinistra, ora chiamata massimalista, i cui esponenti si dichiaravano ammiratori entusiasti della rivoluzione bolscevica. Questa radicalizzazione finì con l’isolare il movimento operaio. I socialisti si preclusero ogni possibilità di collaborazione con le forze democratico – borghesi, spaventate dalla minaccia della dittatura proletaria. L’espansione del partito socialista nel biennio successivo al conflitto fu un fenomeno che caratterizzò tutta l’Italia, anche quelle zone rurali dove la tenuta delle forze costituzionali era tradizionalmente più netta. L’avvento del partito di massa nelle piccole realtà comunali delle periferie italiane stravolse letteralmente l’equilibrio sociale e la vita stessa di quella parte dei cittadini fino ad allora esclusi aprioristicamente dalla scena politica. La crescita del fenomeno sindacale e la nascita di quella fitta rete di istituzioni sulla quale si basava il sistema socialista di formazione culturale e partecipazione democratica allargò notevolmente il ventaglio delle occasioni di accesso alla politica da parte dell’intera classe proletaria. La partecipazione attiva alla vita pubblica attraverso la trafila nei nuovi partiti riscattò le classi sociali più deboli cui la nuova realtà dava finalmente la possibilità di confrontarsi con quelle forze che per anni avevano egemonizzato l’apparato amministrativo provinciale e comunale. Alla fine del 1920 i comuni retti da maggioranze socialiste decuplicarono in tutta Italia. Unitamente alla crescita del partito si intensificarono le battaglie sindacali, e proprio nel 1920 si assistette all’occupazione delle fabbriche, ultimo capitolo dell’ondata di scioperi ed agitazioni che avevano sconvolto il paese durante il cosiddetto “biennio rosso”. Anche se queste forme di lotta proletaria si conclusero di fatto con il 1921, nell’opinione pubblica moderata si era ormai diffuso l’allarme per una situazione che si giudicava minacciosa. L’espansione del movimento socialista era sotto gli occhi di tutti e i timori di una rivoluzione sul modello bolscevico venivano, a torto o ragione, definiti attendibili. Fu così che in molti guardarono con simpatia alle prime manifestazioni dello squadrismo fascista: l’ ”ordine” andava ristabilito. Nel corso di soli quattro anni (dal 1920 al 1924) l’Italia passò dal pericolo di una rivoluzione proletaria ad un regime di stampo fascista che ne condizionerà la storia per i successivi vent’anni.
Scopo primario di questo lavoro è lo studio di quel periodo di grandi trasformazioni sociali e culturali che seguì il termine del conflitto mondiale attraverso la ricostruzione storica dell’attività di un comune della provincia comasca: Erba. Come la maggior parte dei comuni lariani anche Erba visse l’esperienza di un’amministrazione socialista prima che il fascismo oscurasse ogni forma di partecipazione democratica alla vita pubblica. La “giunta Giussani” (dal nome del sindaco socialista), governò la cittadina dall’ottobre del 1920 al gennaio del 1923, anno in cui gli squadristi locali la costrinsero alle dimissioni. Successivamente il municipio venne retto da commissari prefettizi fino alla nomina del podestà nel 1926. La ricerca verte quindi sui sei anni che intercorsero tra l’elezione dell’amministrazione “rossa” e la definitiva conquista della città da parte dei fascisti con l’istituzione della carica podestarile, assegnata inizialmente al segretario politico del fascio locale. Le elezioni amministrative del 20 ottobre 1920 furono le ultime ad eleggere democraticamente gli organi di governo comunali e provinciali; la nomina del podestà il 12 luglio 1926 (in tutti i comuni lariani), sancì l’inizio del governo fascista anche in ambito locale. Il tema centrale di questo lavoro si sviluppa all’interno del lasso di tempo delimitato da queste due date. In questo modo è stato possibile osservare come gli avvenimenti che sconvolsero l’Italia nel dopoguerra si ripercossero anche su di una piccola realtà come quella del comune di Erba, fino a quel momento immune ai mutamenti che attraversavano il paese. Attraverso lo studio dell’ amministrazione comunale nelle due fasi contraddistinte dalla supremazia del partito socialista e successivamente da quella del partito fascista si è ottenuto inoltre uno spaccato di quella che era la vita sociale di una cittadina di periferia nel contesto di uno tra i periodi più controversi della nostra storia.
Fonte principale per la compilazione è stato l’Archivio Comunale di Erba, all’interno del quale sono conservati documenti inerenti l’amministrazione municipale a partire dal 1800. Per il periodo considerato (1920 – 1926), gli argomenti sono suddivisi in una decina di categorie corrispondenti a circa cinquanta cartelle, ciascuna di svariati fascicoli. La parte più preziosa si è rivelata quella corrispondente al “governo” della città poiché attraverso gli atti comunali è stato possibile ricostruire la dinamica degli eventi più importanti. Di grande aiuto sono stati inoltre i registi delle delibere consiliari, all’interno dei quali, oltre alle iniziative della maggioranza, si trovano le contestazioni e le controproposte dell’opposizione. Piuttosto scadente rimane invece la documentazione relativa ai comuni lariani conservata nell’Archivio di Stato di Como. Specie per gli anni 1919-1923 scarseggia infatti la raccolta documentale. Le comunicazioni tra prefetto e Ministero degli Interni, effettuate attraverso relazioni, rapporti e telegrammi, si intensificano con l’avvento del fascismo e danno un quadro significativo della situazione politica, economica e sociale di tutta la provincia, mentre del periodo precedente diverse rimangono le lacune storiche. Fondamentale infine si è dimostrato l’apporto dei giornali e dei periodici del tempo conservati preso la Biblioteca Comunale di Como. I quotidiani “La Provincia di Como” e “L’Ordine” sono indispensabili per conoscere fatti e vicende del territorio lariano, anche perché erano gli unici ad uscire durante tutto l’anno con continuità. I periodici “Il Corriere delle Prealpi” moderato, “Il Lavoratore Comasco” socialista, “Vita del Popolo” cattolico e “Il Gagliardetto” fascista rappresentano singoli spicchi di opinione ed è quindi necessario effettuare un controllo presso i carteggi archivistici per “depurare” le notizie dalle interpretazioni più faziose. Si sono rivelati tuttavia delle fonti preziose per questa ricerca perché contengono le corrispondenze dai comuni del circondario con le cronache dettagliate degli avvenimenti più important


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